Dopo aver preso coscienza che la pandemia è qualcosa di mondiale che riguarda tutti e una volta compreso che con i vaccini e le precauzioni, ancora in vigore, forse possiamo tenere sotto controllo la situazione, tutti speravamo che le esperienze legate alla pandemia favorissero atteggiamenti di solidarietà, partecipazione, coesione.
Purtroppo però abbiamo dovuto fare i conti anche con le nostre paure: la paura del contagio, di perdere il lavoro, di dover rimanere chiusi in casa, di dover dipendere dagli altri o dal risultato di un tampone, dalla paura di non riprenderci quello che era sempre stato nostro e forse dato troppo per scontato. Abbiamo attivato tutte le difese possibili rinchiudendoci in casa, limitando i contatti ed evitando le relazioni di persona.
Anche la nostra Chiesa ha dovuto fare i conti con attività pastorali cancellate, innovazioni tecnologiche mai utilizzate che poi si sono rivelate utili per la comunicazione, la preghiera, gli incontri. Faticosamente qualcosa è ripartito, i legami hanno tenuto, le attività, anche se con modalità differenti, hanno prodotto risultati inaspettati. Ma tutto questo è avvenuto perché siamo riusciti a fare centro sul concetto del DONO. Solo donando, uscendo da noi stessi, siamo riusciti a mantenere le relazioni; solo donando, occupandoci gli uni degli altri, siamo riusciti a non disperarci; solo donando, interrogandoci sul senso della nostra vita, siamo riusciti a restare uniti.
Anche lo slogan della Chiesa cattolica per la raccolta delle “offerte per i sacerdoti” è cambiato a ha messo al centro la parola DONO. Ed ha aggiunto anche la parola UNITI. «Uno slogan vale l’altro: ma perché dovrei fare una offerta per i preti?».
Anche tanti di noi, praticanti, se lo chiedono; soprattutto se dimenticano che i 33.000 sacerdoti italiani non sono i “funzionari” della chiesa, ma persone che hanno deciso che la loro vita sia un DONO e hanno scelto di donarsi. Ma la domanda continuiamo a farcela se pensiamo ancora che sia il Vaticano, pieno di soldi, che deve far fronte a tutto ciò che riguarda la Chiesa e dimentichiamo che la Chiesa siamo noi.
Siamo noi, UNITI insieme: noi giovani, noi famiglie, noi preti, noi religiosi, noi ragazzi, noi anziani, noi parrocchiani e noi lontani.
La remunerazione dei sacerdoti, fondata sulle offerte dei fedeli è frutto di una scelta della Chiesa cattolica italiana, che dal 1984 ha per sempre rinunciato alle sovvenzioni dello Stato italiano. La remunerazione è oggi garantita da eventuali stipendi o pensioni (16,5%) – se i sacerdoti svolgono o hanno svolto attività professionale (es. insegnamento) – dai redditi prodotti da immobili e terreni in carico agli Istituti diocesani per il sostentamento del clero (5,4%), dai contributi delle parrocchie per il servizio del loro pastore (7,3%) e dai contributi 8xmille – che però avrebbero originariamente una diversa destinazione – per oltre il 69,2% del totale. Solo il 1,6% proviene dalle offerte dei fedeli, quelle dirette all’Istituto Centrale per il sostentamento del clero.
L’Otto per mille, altro pilastro per il sostegno economico della Chiesa italiana, dovrebbe essere impegnato interamente per sostenere le attività pastorali, la cura delle strutture e la carità in Italia e nel mondo.
UNITI significa quindi che non possiamo disinteressarci dei nostri sacerdoti e del servizio che svolgono. UNITI significa che il loro servizio è apprezzato, è necessario. UNITI significa abbattere i muri di separazione e vivere una corresponsabilità ecclesiale; significa che lo stile di Gesù, lo stile del DONO, riguarda tutti: possiamo donare il nostro tempo, le nostre competenze, le nostre risorse; anche una modesta offerta per i sacerdoti è un segno di solidarietà e partecipazione. Vogliamo essere UNITI NEL DONO.
Marcello Barbieri, Servizio diocesano Sovvenire