Quest’anno la pietra tentenna, pare che voglia liberare il sepolcro solo un poco alla volta. I quattro Vangeli del mattino di Pasqua annunciano concordi che le donne, giunte all’alba, trovarono la pietra completamente ribaltata e rovesciata, tanto da poter verificare l’assenza del corpo di Gesù dalla tomba. Ma la nostra Pasqua, quest’anno, è velata da un senso di incompiutezza. Sì, “è risorto, non è qui”… ma il masso non ha scoperto del tutto la bocca del sepolcro. È come se il Signore ci donasse una festa di risurrezione velata da una certa ansia; e come se il respiro fosse ancora trattenuto dall’apprensione e non potessimo cantare convinti l’alleluia; è come se la mascherina, che portiamo per proteggerci e difendere gli altri dal coronavirus, smorzasse anche il nostro inno di gioia pasquale.
Un tempo come questo, certamente, sta incidendo così in profondità nel nostro animo, che entrerà nei ricordi incancellabili. E quel pesante sasso, che solo timidamente inizia a farsi da parte, è appoggiato sul nostro cuore oppresso dalla sofferenza. È questo il sepolcro che tarda ad aprirsi, il nostro cuore. Una grande pietra ci è venuta addosso all’improvviso, tra il culmine del carnevale e l’inizio della quaresima, lasciandoci prima increduli e indecisi – chi si è affrettato a minimizzare, con toni anche spavaldi, ha dovuto fare retromarcia – e poi sempre più trepidanti, timorosi e spaventati. La sovrapposizione tra quaresima e quarantena, da alcuni vissuta letteralmente, è stata difficile per tutti, alzando il velo su una realtà di luci e di ombre: le luci della coraggiosa dedizione di medici, infermieri, sanitari, volontari, istituzioni, forze dell’ordine; e quelle della creativa operosità di docenti, ministri delle comunità, psicoterapeuti, lavoratori nelle attività essenziali, nella comunicazione e nei settori industriali, commerciali, bancari, assistenziali; e tanti semplici cittadini e fedeli, attivi in quel fittissimo intreccio di fili sotterranei di carità, di attenzione ai deboli e di consolazione dei più fragili, che non fa notizia, ma regge il tessuto della storia. Sono luci che si mescolano alle ombre: le sofferenze vissute dai malati, parecchi dei quali purtroppo morti; il dolore attraversato dai congiunti delle persone colpite, gli altri ammalati che si vedono rimandare esami ed interventi; e le non poche persone segnate nell’intimo dall’angoscia, più esposte al bombardamento delle notizie, preoccupate per la perdita o la riduzione del lavoro, affrante dall’impossibilità di accompagnare i loro cari defunti nei riti del commiato.
Il virus ha alzato il velo di una realtà che ci avvolge sempre, ma della quale spesso – a meno di essere toccati nella carne – riusciamo a dimenticarci, distratti e impegnati nelle nostre attività. La morte, la malattia, il disagio psichico, la paura, il dubbio, la precarietà, non sono salite da qualche settimana sul treno della nostra vita, ma sono in viaggio con noi da sempre. Solo che talvolta, illudendoci di essere al sicuro negli scomparti business o executive, appoggiando sulle orecchie le cuffie con la musica preferita e visitando il vagone ristorante, fingevamo di non accorgercene. Ora il treno si è fermato, è segnalato un guasto grave, abbiamo dovuto scendere; ora siamo tutti insieme sui binari, in attesa che riparta, e ci rendiamo conto di essere davvero coinvolti in un unico grande viaggio, senza carrozze di prima o seconda classe, senza trattamenti speciali. Il mondo è proprio un “villaggio globale”, la cui salute ora dipende, paradossalmente, anche dalla “distanza” che riusciamo a tenere con i vicini. Ci è imposto di purificare le relazioni prossime, per guadagnare il senso profondo delle relazioni universali.
La Pasqua quest’anno avrà dunque il sapore di un annuncio autentico ma non trionfante. Il sepolcro ha solo cominciato ad aprirsi. Del resto anche i discepoli e le donne, pur avendo visto la pietra rotolata via e la tomba vuota e udito l’annuncio della risurrezione di Gesù, hanno continuato per alcune settimane – fino a Pentecoste – a provare timore, spavento e paura (cf. Mc 16,8; Lc 24,37), a nutrire dei dubbi (cf. Mt 28,17; Lc 24,11.23-24.38; Gv 20,25), stentando perfino a riconoscerlo. Sarà per noi una Pasqua che, nella fede in Gesù risorto, ribalterà la pietra a poco a poco, mentre riprenderanno con la giusta cautela le attività consuete. La speranza è che quando, in un tempo certo non prossimo, potremo finalmente dire di essere tornati alla “normalità”, possiamo cantare un alleluia diverso da prima: avendo imparato ad essere meno superficiali, più consapevoli di ciò che davvero conta nella vita, attenti ai fratelli, soprattutto ai più fragili, aperti alla prospettiva della vita eterna. Solo allora la grossa pietra si potrà dire completamente ribaltata dal sepolcro del nostro cuore.
+ Erio Castellucci