Teklemariam, Senait e Weldegabr. Sono questi i nomi dei tre giovani di origine eritrea che saranno ospitati a Nonantola nell’ambito dei Corridoi umanitari promossi dalla Caritas. Dal prossimo 31 gennaio le vicende umane di Taklemariam, di sua moglie Senait, al quinto mese di gravidanza, e di suo fratello Weldegabr si intrecceranno con la storia della comunità di Nonantola, pronta ad accogliere i tre profughi, provenienti dal campo Shimelba, in Etiopia.
Prenderà avvio nel giorno di San Geminiano un percorso di integrazione che durerà diversi anni e che vedrà coinvolta l’intera comunità nonantolana, non solo la parrocchia. «I Corridoi umanitari – spiega Paolo Prandini, operatore Caritas e referente diocesano per l’immigrazione – sono l’evoluzione di un processo cominciato in seguito all’appello di papa Francesco del 2015, quando chiese alle diocesi e alle parrocchie di ospitare una famiglia di profughi. Caritas italiana ha declinato l’appello con il progetto “Rifugiato a casa mia”: alcune realtà diocesane e parrocchiali si sono messe in gioco, ma c’è ampio margine di miglioramento se su 26mila parrocchie italiane è stata data accoglienza a 560 persone con questo progetto.
È stata fatta una riflessione su un modello di accoglienza diverso, partendo da una domanda: come Chiesa come ci poniamo nei confronti di persone che scappano dalla guerra o dalla fame? È nata così la proposta dei Corridoi umanitari, non una novità visto che era già partita due anni prima su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio e della Chiesa valdese. In seguito agli accordi con i Ministeri degli Esteri e dell’Interno e col governo etiope, Caritas italiana, dopo un anno dall’avvio, arriverà ad accogliere nelle diocesi 500 profughi».
Teklemariam, Senait e Weldegabr arriveranno a Fiumicino e si trasferiranno in un appartamento a Nonantola, paese che ha sempre dimostrato grande sensibilità nell’accogliere, come conferma Prandini: «Dal salvataggio di Villa Emma fino ai giorni nostri, i nonantolani sono sempre stati vicini a chi ha bisogno d’aiuto. L’associazione “Anni in fuga”, di cui il parroco don Alberto Zironi è il primo firmatario, riunisce diverse anime della comunità e insieme alla parrocchia si è voluta mettere alla prova, accettando questa sfida.
Caritas italiana finanzia questo progetto per un anno, riconoscendo un contributo economico per ogni persona. Concluso l’anno, la diocesi è disponibile a sostenere la famiglia per altri cinque anni, tempo ritenuto necessario per una completa integrazione». È possibile un altro modo di fare accoglienza, che metta in gioco in modo trasversale non solo la comunità parrocchiale, ma anche quella civile, con il coinvolgimento di associazioni e cittadini? A questa domanda vuole rispondere l’esperienza nonantolana di Teklemariam, Senait e Weldegabr, che verrà studiata anche nelle aule universitarie: «La permanenza verrà monitorata per cinque anni e ne verrà valutata l’evoluzione da parte di una docente dell’Università statunitense di Notre Dame. Un monitoraggio verrà fatto anche da Caritas Italiana, per valutare gli esiti che questa modalità di accoglienza porterà nei percorsi delle persone accolte, qual è il livello di integrazione raggiunto, l’adattamento al lavoro e la tenuta della famiglia. L’obiettivo – conclude Prandini – è arrivare a fare delle proposte ai singoli paesi dell’Unione europea, per valutare le potenzialità di questo modello d’integrazione».