Il peso leggero
Spunti per una pastorale snella
Messaggio agli operai del Vangelo
delle Diocesi di Modena-Nonantola e Carpi
«Basterebbe così poco…»
Al termine di un pomeriggio lavorativo, in un giorno di un mese e di un anno qualsiasi, accendo la radio per ascoltare le notizie del giorno. Le guerre nel mondo proseguono: milioni di giovani soldati morti e migliaia di vittime civili. La Terra Santa non ha pace. Un adolescente accoltella un coetaneo, un altro stermina la famiglia. Di nuovo un suicidio nelle carceri, un femminicidio e una vittima di incidente sul lavoro. Poi arriva la politica nazionale: un ministro esalta i risultati del governo, un onorevole dello schieramento avverso ne dichiara il fallimento. Per fortuna il Presidente della Repubblica oggi ha distribuito i cavalierati a persone distintesi per grandi meriti. Però l’estate che si chiude è la più calda mai registrata e crescono i fenomeni estremi.
Spengo la radio, ormai depresso, e scaldo qualcosa per cena. Se sono un prete, un diacono o un operatore/operatrice pastorale (preferirei l’espressione “operaio/operaia del Vangelo”), mi attende un incontro serale in parrocchia o in associazione. Ne avrei fatto volentieri a meno, per rilassarmi un po’, ma ormai ho preso l’impegno e devo partecipare. Se poi questa sera c’è il consiglio pastorale – esperienza purificatrice – allora non posso mancare. E questa sera c’è proprio il consiglio pastorale. Nel dibattito uno si lamenta, altri notano che in parrocchia siamo sempre meno; un signore che dice sempre quello che pensa insinua che la colpa è dell’attuale parroco, il quale però viene difeso d’ufficio da un altro che lo scagiona, perché la colpa è delle famiglie, indifferenti, e della società, che ha smarrito i valori. Finalmente si passa a questioni concrete: com’è andata la sagra, quanta gente è venuta, quanto c’è in cassa. Benedizione finale verso mezzanotte.
Quanta pesantezza si vive nel mondo, nella società, nelle famiglie, nelle comunità cristiane. Eppure «basterebbe così poco…». Ogni tanto mi viene in mente questa frase – «basterebbe così poco» – pronunciata spesso da una mia anziana e saggia collaboratrice parrocchiale. Quando si parlava di guerre, violenze, ingiustizie e conflitti sociali, commentava: «basterebbe così poco per vivere tutti in pace». E quando assisteva alle mie prediche o a catechesi per gli adulti o a celebrazioni di preghiera, evidentemente per lei troppo astratte, usciva con: «basterebbe così poco per credere». Richiamava i parrocchiani, e anche il parroco, se riteneva superati i limiti della cortesia e assisteva a discussioni dove i toni si alzavano e le parole diventavano taglienti: «basterebbe così poco per rispettarsi». E quando le sembrava che trascurassimo le persone emarginate, osservava: «basterebbe così poco per accogliere».
La signora non era affatto superficiale: era semplicemente evangelica. In fondo «basterebbe così poco» potrebbe essere lo slogan di Gesù. Alle macchinose regole dei farisei, con tutte le loro norme e disposizioni, lui oppone un semplice comandamento: ama Dio e il prossimo come te stesso. Alla moltiplicazione infinita di parole nelle preghiere, Gesù sostituisce un semplice “Padre nostro”. Lui ignora le complicate classificazioni delle persone tra puri e impuri, degni e indegni, vicini e lontani dal regno di Dio e chiede di non giudicare, andando invece dritto al cuore di chi è scartato: che sia un santo o un peccatore, un malato o un sano, un uomo o una donna, un povero o un ricco, per Gesù chi lo cerca è un fratello o una sorella da accompagnare nel cammino di guarigione del cuore, del corpo e della mente. Per lui davvero bastava poco… e non perché vivesse con la testa nelle nuvole, ma perché viveva immerso nel Padre.
Buoni propositi pandemici e sinodali
«Basterebbe così poco» per costruire società e comunità cristiane più “leggere” e vivibili e invece abbiamo appesantito tante relazioni, abbiamo fabbricato strutture in cui rischiamo di rimanere impigliati, abbiamo accatastato tante pratiche secondarie rischiando di seppellirvi l’essenziale.
I primi mesi della recente pandemia, nel cosiddetto lock down (marzo-maggio 2020), ci hanno provocato sul superfluo e l’essenziale. Il Covid-19 ha sollevato il velo sulle paure del dolore e della morte, ha smascherato le superficialità, ha svelato le domande di senso e di vita sempre presenti ma spesso dormienti. Tutti ci siamo chiesti che cosa conta davvero nella vita; e ci siamo sentiti interpretati dalle parole in cui il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, tra i primi colpiti pesantemente dal virus, ha riassunto il suo cammino interiore: «L’esperienza dell’avvicinarsi a morire per me è stata come sentirmi evaporare, sentire che tante cose pur importanti – i progetti, le cose da fare, persino il mio corpo – cadevano, perdevano consistenza. Alla fine restavano, come nocciolo duro che definiva il vero “me stesso”, solo due cose: il sentirmi davvero affidato alle mani di Dio e i tanti volti con cui ho costruito negli anni delle relazioni» (Intervista a Famiglia Cristiana, 18 giugno 2020). Ecco l’essenziale: l’affidamento a Dio e le relazioni autentiche.
In quei mesi abbiamo espresso il sano proposito di snellire anche la nostra vita pastorale, rendendoci conto che talvolta soffriamo di “martalismo”, come lo chiama papa Francesco: un attivismo affannato, dentro al quale non si distingue più l’essenziale dal secondario. Nel frattempo ha preso avvio il Sinodo dei Vescovi e, per noi italiani, il Cammino sinodale: queste esperienze fanno emergere il desiderio diffuso di una Chiesa più familiare e accogliente, più semplice e leggera, più concentrata sulle relazioni e meno sui programmi, più sui volti e meno sulle strutture, più sulla parola di Dio e meno sulle strategie umane. Facile a dirsi, almeno durante il lock down e nei gruppi sinodali; difficile a farsi, perché la tentazione di fare come prima, di tornare ad appesantire e complicare l’esperienza cristiana, è sempre in agguato. Nelle nostre due Diocesi abbiamo maturato come contributo sinodale, in questi anni, alcuni orientamenti tesi proprio ad alleggerire la vita pastorale delle comunità concentrandosi sull’essenziale; orientamenti raccolti nelle sei schede pubblicate lo scorso anno, che – in attesa di altre indicazioni nazionali – si possono intanto adottare e adattare: la visita annuale alle famiglie (1), l’oratorio (2), l’accompagnamento spirituale (3), l’ascolto della Parola (4), l’omelia (5) e la parrocchia come casa per tutti, comprese le persone più fragili (6).
L’antidoto alla pesantezza c’è, ma non è fuori di noi: è la leggerezza interiore, un altro modo per dire “conversione”. Parafrasando le parole di Dio a Israele nel Deuteronomio, là dove il Signore chiede al popolo la conversione alla sua parola, possiamo dire che il segreto della “leggerezza” non è nel cielo, perché noi possiamo chiederci chi salirà fin lassù per prendercelo; non è di là dal mare, perché possiamo trovare la scusa che non siamo in grado di attraversarlo; in altre parole, non possiamo aspettarci un miracolo dall’alto o la soluzione magica dal papa, dal vescovo o dal parroco; no: questa parola «è nella tua bocca e nel tuo cuore» (Deut 30,14). Se non alleggeriamo la bocca e il cuore – dieta che si chiama “conversione” – potremo vedere anche dei miracoli, ricevere i documenti sinodali più acuti da papa e vescovi, organizzare in parrocchia e in associazione iniziative attraenti: ma saremo privi di spirito.
La Scrittura, che è l’anima della conversione personale e della vita pastorale, raccomanda la leggerezza interiore. Ad Elia il Signore non si presenta nel vento impetuoso, nel terremoto e nel fuoco, ma nel «sussurro di una brezza leggera» (1 Re 19,12). In alcuni passi Dio è paragonato ad un’aquila che vola sopra i suoi piccoli e li solleva (cf. Deut 32,11; Sal 90,4). E Gesù raccomanda che i nostri cuori non si appesantiscano (cf. Lc 21,34). Questo Messaggio è dunque un invito a perdere peso nella bocca e nel cuore: il segreto per una pastorale snella.
Il globo di Atlante e il giogo di Gesù
Il poeta greco Esiodo, nel sec. VII a.C., informa che il titano Atlante venne punito da Zeus per avere combattuto contro le divinità dell’Olimpo. La pena inflitta dal dio supremo è originale: Atlante è destinato a portare sulle spalle il globo della volta celeste, addossandosi questo enorme peso per tutta la vita (cf. Teog., 517-520). Qualche volta noi operai/e del Vangelo diamo l’impressione di essere dei piccoli Atlante, sovrastati dai pesi delle attività pastorali, imposti da uno Zeus più in alto di noi: il parroco (nel caso di catechisti, educatori, animatori, ministri, consiglieri), il vescovo (nel caso di presbiteri e diaconi) o il papa (nel caso dei vescovi). C’è sempre uno Zeus da incolpare per il fardello che portiamo sulle spalle: lo avvertiamo soprattutto all’inizio dell’anno pastorale, quando, insieme alla stagione venatoria, si apre anche la caccia a nuovi collaboratori e operatori. Il problema è che Atlante, prodigo in lamenti, con il capo piegato in basso per il peso del globo, provoca tutt’al più commiserazione, ma non attrae nessuno: e infatti nessuno lo aiuta.
Anche Gesù ci propone un peso sulle spalle: lo fa in modo da suonare quasi ironico. L’invito iniziale in realtà è promettente: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Chi non si avvicinerebbe? Chissà come fa il Signore a ristorarci: vediamo… Poi arriva la botta: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,29). Un giogo, un altro peso, sarebbe il ristoro? Per finire con un paradosso: «Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,30). Questo giogo deve essere qualcosa di ben diverso dal globo di Atlante: infatti non è più il peso della punizione, ma il peso dell’amore. Il giogo di Gesù è la croce, che non è sinonimo di dolore, ma di dono, offerta, carità. Gesù non mi chiede di addossarmi un altro peso – la vita ne presenta già tanti e lui non è certo un dolorista – ma mi chiede di caricarmi del “suo” giogo, dove lui occupa un posto e io un altro. Mi dà la possibilità di condividere con lui il percorso, in modo che io sia sollevato dal carico. Solo l’amore, e l’amore di Cristo, rende leggero il cammino.
Certo, l’amore comporta dei pesi; lo sa bene chi intreccia la sua vita con quella di altri: nel matrimonio, nella missione di genitori, educatori e pastori, nell’aiuto alle persone svantaggiate. Chi decide di amare, sa che ne dovrà soffrire: per i contraccolpi della situazione dell’altro e talvolta anche per le delusioni e i tradimenti. Ma ne vale la pena, ci assicura il Vangelo: perché chi non ama, non estrae da sé le ricchezze più belle e rimane povero nel cuore. Chi ama, fatica e rischia di più, ma vive un’esistenza coinvolgente e piena, perché noi siamo fatti per amare. Questa è la promessa nascosta nel giogo di Gesù, su cui scommettiamo noi operai/e del Vangelo; altrimenti, il nostro servizio diventa la pena di Atlante.
Il peso dell’ozio e la leggerezza del lavoro
Ogni tanto la parola di Dio continua a scuotere e scandalizzare: è un segnale positivo. C’è da allarmarsi solo quando produce noia e indifferenza. Nella Bibbia patriarchi e profeti reagiscono sempre alle parole del Signore: a volte con entusiasmo, altre volte con irritazione e rammarico. Gesù poi scomoda gli animi, sia provocando ammirazione sia, al contrario, critiche, ribellioni e odio. Mai indifferenza: le sue parole non fanno dormire e nei Vangeli infatti non compare il verbo “sbadigliare”.
Una delle parabole più provocatorie, ancora in grado di suscitare reazioni forti, è quella dei vignaioli assunti ad ore (cf. Mt 20,1-16). Non è giusto che gli ultimi arrivati, avendo lavorato solo un’ora, ricevano la stessa paga dei primi, che hanno affrontato «il peso della giornata e il caldo». Gli operai della prima ora, per Gesù, sono gli ebrei fedeli, credenti e praticanti assidui. Quelli delle ultime chiamate sono gli ebrei infedeli, i peccatori e i pagani (noi), ossia chi si converte “dopo” e si coinvolge tardi nella vigna del Signore. Qual è il senso della parabola? Gesù mette in guardia gli operai del regno dal rischio di vivere il lavoro come un peso, finendo per invidiare chi se ne tiene fuori e arriva tardi. Ci sta dicendo che se prestiamo il nostro servizio nella comunità come un peso, ne perdiamo il senso. Lavorare nella vigna del Signore non deve essere un carico, ma una carica, non in senso onorifico, ma in senso energetico: un pieno di entusiasmo e un’iniezione di vita. è faticoso, certo, ma è la bella fatica del donarsi, la gioia di testimoniare il Vangelo. Se prevalgono pesantezza e tristezza, qualcosa non funziona. Meglio tornare in piazza e attendere una chiamata diversa, non quella del padrone di questa vigna. Gli operai affetti da lamentosi cronica non fanno altro che contagiare altri operai e scoraggiare chi desidera impegnarsi. Tutto diventa più pesante, quando si affronta con l’animo gravato dal malumore.
Uno degli operai entrato tardivamente nella vigna, Sant’Agostino (+ 430), che solo dopo i trent’anni – età per l’epoca già matura – si fece battezzare e abbandonò la sua vita disordinata, quando anni dopo medita sulla sua faticosa conversione, e rievoca quel salto verso Cristo, scrive: «troppo tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, troppo tardi ti ho amato» (Conf. 10,27). Invece di dire: stavo così bene nella mia vita lontana da Dio, immersa nei piaceri e nelle cose mondane, dice proprio il contrario; si rammarica di non essere stato tra gli operai della prima ora. Chi coltiva l’amicizia con Cristo affronta anche le fatiche con gioia ed è contento di lavorare nella sua vigna; chi coltiva i traguardi propri vive tutto come un carico da trascinare e invidia coloro che se ne stanno in piazza a far niente.
Il peso dell’invidia e la leggerezza della stima
Il malumore, a proposito, dipende spesso dall’invidia. L’invidia è un veleno che annebbia la vista – l’etimologia latina esprime un vedere malato – e oltretutto rende scontenti. Perché consiste nel provare dolore per le gioie altrui, senza peraltro ricavarne alcun vantaggio. Per questo l’invidia, allo scopo di recuperare qualche vantaggio, si prodiga a volte in maldicenza, nel tentativo di abbassare l’altro e innalzare se stessi. Francesco d’Assisi era durissimo contro i frati maldicenti. Il biografo Tommaso da Celano scrive che il Santo «evitava i maldicenti e le pulci mordaci, quando li sentiva parlare, e rivolgeva altrove l’orecchio, come abbiamo visto noi stessi, perché non si macchiasse con le loro chiacchiere» (Fonti Francescane, 768).
Per curare la malattia della maldicenza dovremmo tentare di allenarci alla bendicenza. È il «gareggiate nello stimarvi a vicenda» di Rom 12,10; tutte le altre competizioni per San Paolo e per i primi cristiani, erano vietate: quasi sempre infatti le gare atletiche dei pagani finivano nella violenza e nel sangue. L’unica gara ammessa per l’Apostolo è la stima vicendevole. È difficile provare e dichiarare stima per l’altro, apprezzamento per i suoi doni, perché sembra quasi di abbassare se stessi. Ma la gioia più intima viene proprio dalla stima dei doni altrui, perché è una gioia disinteressata, liberante, che alleggerisce la vita.
Quando l’atteggiamento dell’invidia, così diffuso nella società, si infiltra anche nelle nostre comunità, perdiamo quasi tutte le energie nei pesanti tentativi di ricucire le relazioni, di ridefinire spazi e compiti, di rimetterci d’accordo. Dante Alighieri aveva intuito che in paradiso i beati hanno l’occhio contento, il contrario dell’occhio invidioso; sono contenti per i doni degli altri e non solo per i propri. Presentando due grandi santi medievali, Francesco e Domenico, fondatori di due Ordini che all’epoca di Dante erano in competizione, appunto i francescani e i domenicani, il sommo poeta conferma il suo genio: a cantare le lodi di Francesco nel Paradiso non è un francescano, ma un domenicano, San Tommaso (Canto XI), e a cantare le lodi di Domenico non è un domenicano, ma è un francescano, San Bonaventura (Canto XII). Dante suggerisce così che quando riusciamo a mettere da parte la competizione e provare gioia per i doni degli altri, viviamo già un anticipo di paradiso. Quando invece ci conquistano l’invidia, il sospetto e la maldicenza, viviamo non dico un inferno, ma almeno un purgatorio anticipato.
Il peso del credito e la leggerezza del debito
Nella gestione personale, familiare e comunitaria è meglio vantare un credito che trovarsi in debito. Ma nella vita di fede vale il contrario. Quando faccio leva sui miei meriti, veri o presunti, mi sento in credito verso Dio e gli altri, pretendo e mi lamento se non ottengo quanto mi sembra dovuto. Quando invece faccio leva sui doni di Dio, sento che sono in debito e devo solo restituire il bene ricevuto. Ogni volta che mi comporto da creditore, divento pesante, antipatico e perdo amici; ogni volta che mi comporto da debitore, costruisco relazioni libere e disinteressate. La vita diventa leggera se mi converto alla logica del dono, abbandonando quella del diritto. La logica del dono apprezza tutto quello che ho già ricevuto, quella del diritto reclama ciò mi manca.
C’è un segreto, che però Gesù ci ha svelato, per vivere la logica del dono: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Lo tradurrei così: dite spesso “grazie” con le parole e le opere, per non cadere nel tranello dei creditori e nella logica del diritto; dite a Dio e agli altri più volte al giorno questa parola magica di sei lettere, per mantenere la leggerezza di sentirvi amati e beneficati. Dopo sarete anche più capaci di cercare ciò che vi manca, ma lo farete con saggezza e senza affanno.
La gratitudine è l’anima della vita cristiana. La conversione personale non consiste nello sforzo della volontà per uscire dai nostri vizi, ma nell’accoglienza della grazia per entrare nell’abbraccio di Dio. Zaccheo, come tanti altri peccatori che hanno incrociato Gesù sul loro sentiero, si è convertito; da ladro che era, si è impegnato a restituire il maltolto con gli interessi. La sua conversione però non è il frutto di una decisione etica, ma dell’accoglienza di Gesù nella sua casa (cf. Lc 19,1-10); gli ha semplicemente aperto le porte, ospitando il Signore che bussava. Ha capito, sul ramo del sicomoro, che doveva restituire gratuitamente quello che stava ricevendo gratuitamente.
La persona grata è come lo scultore: vede in se stesso e negli altri un’immagine bella e preziosa, là dove gli ingrati vedono solo pesanti pezzi di marmo. Michelangelo Buonarroti uscì in una famosa sentenza: «io intendo scultura quella che si fa per forza di levare» (Lettera a Benedetto Varchi, 1547). Lo scultore, cioè, lavora non aggiungendo materiale, ma eliminando quello superfluo, vedendo già nel blocco che ha di fronte l’immagine che ne vorrà ricavare e proiettando nel marmo la figura impressa nel suo animo. Quando Michelangelo, poco più che ventenne va a Carrara e sceglie un enorme blocco unico di marmo, vede già lì dentro la figura della meravigliosa Pietà oggi posta nella Basilica di San Pietro in Vaticano; la vede perché era scolpita già dentro il suo animo. Italo Calvino pensa sicuramente a Michelangelo quando, dedicando alla “leggerezza” la prima delle sue Lezioni americane (1984, pubblicate postume nel 1988), riassume così la sua attività di scrittore: «la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».
A noi operai del Vangelo, Gesù chiede di fuggire l’atteggiamento di scribi e farisei, i quali «legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4); ci chiede di farci scultori alla Michelangelo e scrittori alla Calvino, aiutando le persone a liberare la loro parte più bella, ad alleggerire la loro vita, a scaricare i pesi inutili, ad eliminare il superfluo, a scoprire dentro di loro l’immagine di Dio.
Il peso dei criticoni e la leggerezza dei critici
Le critiche sono fastidiose ma utili, se costruttive e propositive. Nell’incontro interreligioso con i giovani a Singapore, papa Francesco ha posto questa domanda diretta: «Tu sei critico? Hai il coraggio di criticare e anche il coraggio di lasciarti criticare dagli altri?» (13 settembre 2024). La critica è un esercizio che fa crescere, allena la mente e la volontà, serve a progredire. Ma ci sono critici e criticoni. I criticoni – e qualche volta lo siamo tutti – spargono insinuazioni e sospetti senza prima verificarli, gettano il sasso e ritirano la mano e si concentrano sui difetti altrui per nascondere i propri. I criticoni sanno sempre perfettamente che cosa dovrebbero o non dovrebbero fare gli altri. Sono quelli a cui Gesù rimprovera di guardare la pagliuzza nell’occhio del fratello trascurando la trave nel proprio (cf. Lc 6,41). I criticoni esprimono in realtà il loro disagio interiore, rivelando con questo atteggiamento di non essere in pace con loro stessi, di portare nell’animo un peso che non li rende liberi e leggeri. Il filosofo Søren Kierkegaard scriveva a metà dell’Ottocento che la persona portata a lanciare giudizi malevoli e infondati – pettegolezzi, accuse e malignità – in realtà sta rivelando ciò che abita il suo cuore, perché è come se confessasse: io nella situazione di questa persona mi comporterei così: «nello stesso istante in cui tu giudichi o critichi un altro uomo, giudichi te stesso; poiché giudicare un altro è in ultima istanza giudicare se stesso, ossia anche diventare manifesto» (Gli atti dell’amore, II serie, L’amore crede tutto, 1847).
Tutt’altra cosa è la critica. I critici, al contrario dei criticoni, guardano la loro trave prima della pagliuzza altrui, si informano bene prima di parlare, dicono ciò che direbbero in presenza delle persone criticate e infine sono disponibili a collaborare per migliorare le cose. Nel 1927 il fondatore della psicanalisi, Sigmund Freud, scrisse ad un suo amico e collega, il pastore protestante Oscar Pfister, avvisandolo che stava per pubblicare un libro a suo avviso spiacevole per i credenti (come si sa, Freud si professava ateo). Il pastore gli rispose: «un avversario intelligente giova più di mille seguaci incapaci» (Lettera del 21 ottobre 1927). Colpiscono positivamente i critici intelligenti, disposti a metterci la faccia e a lasciarsi interrogare a loro volta. Colpiscono negativamente i non pochi criticoni, che sparano a vanvera senza mettersi in gioco e documentarsi. Qualche volta anche nelle nostre comunità emergono atteggiamenti presuntuosi, che contrastano direttamente il severo divieto posto da Gesù: «non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati» (Lc 6,37). Se ci abituiamo ad essere critici, e non criticoni, sperimentiamo la leggerezza del cuore.
Il peso della saccenteria e la leggerezza dell’ironia
Allenarsi ad essere ironici, a non prendersi troppo sul serio, fa bene alla salute del corpo e dell’anima. Il maestro dell’ironia, il filosofo greco Socrate (+ 399 a.C.), impostava i suoi dialoghi partendo da una posizione “leggera”, non assertiva o categorica, ma auto-ironica. Famosa è la sua professione di ignoranza: «so di non sapere». Quando uno si presenta in modo saccente, diventa pesante; quando uno si pone in maniera umile, utilizzando magari l’umorismo pur sostenendo le proprie idee, rende più leggero il clima. Lo dice anche san Paolo: «non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rom 12,16).
San Tommaso Moro (+ 1535) certamente non ebbe una vita facile: Cancelliere del Regno d’Inghilterra sotto Enrico VIII, quando il re si oppose al Papa, avviando la Chiesa anglicana, Tommaso rimase fedele a Roma e per questo venne ucciso. Eppure proprio lui scrisse quella famosa Preghiera del buonumore che termina così: «Dammi, Signore, il senso del buonumore. Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo per scoprire nella vita un po’ di gioia e farne parte anche agli altri». E perfino il grande Giacomo Leopardi, non troppo noto per il suo ottimismo, scriveva: «Chi ha il coraggio di ridere, è padrone del mondo, poco altrimenti di chi è preparato a morte» (Pensieri, 78).
Papa Francesco collega addirittura la gioia e l’umorismo alla santità: «il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo» (Gaudet et exsultate, 122). I santi non sono persone pesanti, saccenti, tristi: sono persone serie e quindi capaci di gioire, prendersi in giro e scherzare. Del diacono San Lorenzo (+ 258) si narra che, messo sulla graticola a bruciare, ad un certo punto abbia detto al suo aguzzino: «sono cotto: girami e mangia!» (cf. Ambrogio De off., 1, 41, 205-207). Forse è una leggenda, che però esprime quanto i cristiani da sempre hanno percepito: la leggerezza della santità e perfino del martirio. Quando noi, ministri e operatori, ci proponiamo come campioni di dedizione («se qui non ci fossi io, sarebbe un disastro»), o vittime del sistema («il parroco / il vescovo / il papa mi sfrutta e non mi capisce») o martiri della pastorale («sono sfinito dagli impegni») diventiamo pesanti e scostanti. L’anima di ogni ministero e servizio nella Chiesa è la gioia, grati per la chiamata del Signore al servizio della Chiesa. Se sfuma la gioia, meglio andare a servire altrove.
Il peso del sistema e la leggerezza dell’annuncio
La fede cristiana non è un sistema pesante di dottrine affastellate o pratiche faticose, ma un annuncio bello, un Vangelo spuntato all’alba di una domenica di primavera. Scriveva Benedetto XVI nelle prime righe della sua enciclica sulla carità: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus Caritas est, n. 1). Il cristianesimo non sorge come una nuova visione morale, una riedizione dei comandamenti; e nemmeno come una nuova concezione del divino, un apparato dottrinale. No: il cristianesimo sorge dall’incontro con Gesù risorto e vivo, allora come oggi. E questo incontro, dice papa Ratzinger, apre un orizzonte nuovo. Questo è l’“essenziale” di cui siamo sempre alla ricerca come operai del Vangelo.
L’orizzonte aperto dalla Pasqua è il rovesciamento della logica umana: un amore che vince l’odio, una vita che vince la morte. Il famoso kerygma, il primo annuncio, era semplicemente questo: Cristo, che era stato crocifisso, è risuscitato, è vivo! Chi ci crede, adotta una chiave di lettura nuova dell’esistenza: vede in tutti gli avvenimenti, lieti o tristi, un raggio della Pasqua. Il resto, pure necessario – comprese la dottrina e la morale che si snodano nella tradizione cristiana – viene di conseguenza. Chi crede nel Risorto, non faticherà a professare il Credo e cercare di obbedire ai comandamenti.
La grande maggioranza dei battezzati, in Italia, abbandona la pratica cristiana in età adolescenziale o giovanile. I motivi vanno ascoltati e presi sul serio. Uno in particolare affiora continuamente, nelle interviste e negli incontri: «la Chiesa è pesante, dà solo delle regole, ha una dottrina sorpassata, non sta al passo con il mondo». L’impressione è che la Chiesa proponga un codice religioso più che un annuncio gioioso. In alcuni casi si tratta di alibi o della semplice ripetizione di cliché diffusi; in altri casi “la Chiesa” è magari identificata con quel parroco da cui arrivavano solo rimproveri; ma in certe situazioni queste critiche sono fondate. Allora deve essere successo qualcosa, se il messaggio più giovane e leggero del mondo, la Pasqua di Gesù, è percepito da molti come sistema vecchio e pesante. Forse la catechesi, l’iniziazione cristiana, le stesse omelie, sono inadeguate come linguaggio e contenuto? Su questi ambiti infatti le nostre due Diocesi hanno offerto dei contributi al Cammino sinodale italiano, che presto assumerà qualche decisione in merito. Forse le strutture che abbiamo sono troppo pesanti? Un altro tema, questo, su cui tante volte ci siamo confrontati, abbiamo compiuto alcune scelte e ci aspettiamo strumenti che alleggeriscano la gestione.
Ma forse, più di tutto, occorre una cura particolare delle relazioni: senza pensare a chissà quali espedienti, ma offrendo semplicemente opportunità di incontro, dialogo, preghiera, ascolto. I nostri giovani impegnati nelle parrocchie e nelle associazioni lamentano la carenza di occasioni informali, di spazi in cui vivere la gratuità e la creatività, segnalando come troppe volte si chiedano a loro servizi e prestazioni funzionali, senza alimentare le relazioni e lo spirito (cf. Cartolina pastorale 2022, La soluzione migliore).
Diventiamo attraenti se puntiamo meno sull’efficienza e più sull’accoglienza. Il che non significa agende bianche: significa agende a macchia di leopardo, dove alcuni spazi siano vuoti perché verranno riempiti dall’imprevisto e dalla gratuità. Noi operatori pastorali dovremmo prendere esempio dai navigatori, che sono pronti a “ricalcolare” il percorso, quando si trovano davanti ad ostacoli e imprevisti. Si fa sempre più strada l’idea che la pastorale ufficiale, necessaria, debba essere integrata da una pastorale informale e più occasionale. In fondo è la cosiddetta “pastorale ordinaria”, fatta di prossimità più che di eventi straordinari.
Il peso della quantità e la leggerezza della profondità
Siamo abituati a contarci e a contare. Non è affatto sbagliato: quando proponiamo un’iniziativa, speriamo di coinvolgere molte persone: se accade il contrario, è giusto chiederci dove abbiamo sbagliato e dove possiamo migliorare. Ma se la logica dei numeri prevale, la vita pastorale diventa pesante. I numeri servono solo a provocare domande, riflessioni, proposte; non possono condizionare la gioia dell’impegno comunitario. La storia e la cronaca della Chiesa ci insegnano: in certe epoche e in certe zone, quando sembra che i cristiani siano sul punto di soccombere – perché perseguitati o ridotti a minoranze – lo Spirito Santo sta seminando a piene mani i suoi frutti; in altre epoche e zone, quando i cristiani appaiono forti e numerosi, ben affermati nella società, magari anche alleati del potere, in realtà il Vangelo ne patisce. Il regno di Dio, al cui servizio si pone la Chiesa, non si misura sulla quantità e sull’imponenza, ma sulla profondità e sull’incidenza. Non l’estensione, ma l’intensità è veicolo del Vangelo.
Tutti gli indicatori sociologici danno la Chiesa italiana in calo: meno credenti e praticanti, minor richiesta di sacramenti, flessione delle vocazioni sacerdotali e religiose, riduzione dei volontari. Sono statistiche importanti che richiedono – come cerchiamo di fare – delle riflessioni e delle scelte. E non ci consola molto sapere che siamo in buona compagnia, perché anche gli altri organismi sociali, civili e politici (anzi, soprattutto questi) attraversano una forte crisi di partecipazione. Cadremmo tuttavia nella trappola dei numeri se ne facessimo motivo di depressione o di ansia pastorale e saremmo ancora meno attrattivi. Gesù non si è scoraggiato di fronte all’abbandono delle folle e dei discepoli, perché sapeva che i semi sparsi dalla sua parola, affidati al Padre, avrebbero portato frutto. Tante volte le esperienze pastorali più profonde e incisive sono quelle vissute a tu per tu o in pochi. L’importante, in molti o in pochi, in centinaia o solo in due, è la leggerezza del cuore, che mira alla profondità. Non possiamo permettere ai numeri di guastarci la bellezza di essere cristiani.
Uno spunto sulle vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata, associate molto spesso alla parola “crisi”. Il calo numerico, evidente, può avere diverse cause: certamente l’affievolirsi della fede, l’abbandono della vita cristiana da parte di tanti ragazzi e giovani, un clima ostile verso la Chiesa anche a motivo degli scandali, lo smarrimento delle famiglie di fronte alle esigenze educative e l’ostentazione di una mentalità edonistica e consumistica, pesano sulle scelte radicali della vita cristiana. Anche in questo ambito, però, ci soccorre la leggerezza del Vangelo. Più ci mostriamo ansiosi del numero di preti e consacrati, più comunichiamo pesantezza. La prima ragione che ci spinge a prospettare a un giovane o una giovane la strada del Seminario o del Convento non può essere l’ansia del numero: rischieremmo di mettere le strutture da noi legittimamente predisposte – parrocchie, conventi e monasteri – davanti alle persone a cui avanziamo la proposta.
Forse questa crisi numerica ci chiede di ripensare le strutture anziché cercare di colmarle a tutti i costi. Sia chiaro: nel cammino cristiano la proposta vocazionale va fatta ma con l’animo leggero, senza ansie. E va fatta non per riempire le nostre caselle vuote, ma per offrire ai giovani l’opportunità di dedicare la loro esistenza al Signore Gesù: chi spendendosi per l’edificazione della comunità annunciando il Vangelo e celebrando la Pasqua, chi abbracciando la testimonianza del primato del regno. Il prete contento fa già con la sua vita pastorale vocazionale; se è scontento, al massimo fa dei tentativi di arruolamento; la suora e il frate contenti fanno già con la loro vita pastorale vocazionale; se sono scontenti compiono tutt’al più opere di reclutamento. Noi non conosciamo il numero ideale dei preti e dei consacrati per le nostre Chiese: ci sono nel mondo comunità fiorenti pur avendone pochi e altre sofferenti pur avendone molte. Il punto dunque mi pare questo: la proposta vocazionale va fatta perché molti giovani abbiano la possibilità di buttarsi nella bella e sfidante avventura di regalare la propria vita al Signore e al suo Vangelo.
Il peso dell’io e la leggerezza del noi
“Io” peso, “noi” siamo leggeri. Questo benedetto “io” che riempie i miei discorsi è come il piombo; quando diventa “noi”, ciascuno completa ciò che manca all’altro e partecipa delle sue risorse. L’io non deve avere la leggerezza della piuma, che vola nell’aria senza meta e si posa per terra a caso: questa sarebbe superficialità. L’io deve avere piuttosto la leggerezza dell’ala, sapendo che può volare solo se troverà un altro io, un’altra ala. Come ha scritto il venerabile don Tonino Bello (+ 1993) nella nota preghiera Signore, dammi un’ala di riserva: «ho letto da qualche parte che gli uomini hanno un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che tu abbia un’ala soltanto, l’altra la tieni nascosta, forse per farmi capire che tu non vuoi volare senza di me (…). Ma non basta saper volare con Te, Signore, tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello e aiutarlo a volare. Non farmi più passare indifferente vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine e si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con Te. Soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore, un’ala di riserva».
Quando da bambino mia mamma mi vedeva sdegnato o arrabbiato per motivi futili, mi riprendeva in modo brusco: «guarda a chi sta peggio e vergognati!». Da adulto ho riconosciuto la saggezza di questo rimprovero: era un invito a volare e ad impiegare l’ala di riserva per chi era più sfortunato. Se non ci lasciamo afferrare dal Signore e portare su ali d’aquila e se non abbracciamo chi fatica a decollare, rischiamo di volare basso, di ripiegarci sui nostri problemi, che diventano macigni, e di dare peso solo ai nostri bisogni.
In questo contesto vorrei collocare anche la recente disposizione della Santa Sede di completare il cammino di unificazione delle nostre due Diocesi per dare origine ad un’altra; non possiamo definire la data in cui nascerà la nuova Diocesi, ma dobbiamo scandire insieme le tappe e le modalità. Comporterà sicuramente delle fatiche, perché ogni cambiamento implica resistenze, ma se lo affrontiamo, in ascolto dello Spirito Santo e della Chiesa, come un volo in cui ciascuno mette un’ala, sarà un arricchimento reciproco e un incentivo ad una missione più snella. Nel corso dell’anno ci attiveremo a tutti i livelli (organismi diocesani, parrocchie, associazioni e movimenti) per impostare i passaggi adeguati dal punto di vista pastorale, territoriale e amministrativo.
Concludo questo Messaggio con l’immagine scelta da papa Francesco per il Giubileo del 2025: “pellegrini di speranza”. Il pellegrino, a differenza del vagabondo, ha una meta e non gira a zonzo: noi abbiamo una meta esaltante, il regno di Dio che si compirà in cielo ma comincia già ora a crescere, se trova gioiosi operai del Vangelo. Il pellegrino poi, a differenza del corridore, non deve gareggiare con altri, non ha la smania di arrivare tra i primi e nemmeno l’ansia del podio, ma cammina godendosi il sentiero e apprezzando la compagnia degli altri pellegrini: noi abbiamo un percorso esaltante, grati per i doni di Dio e per la fraternità di chi percorre la stessa via. Il pellegrino cammina senza essere costretto, solo per la gioia di misurarsi e scoprire la natura, l’arte e il Signore. Ma il pellegrino deve avere uno zaino leggero, altrimenti soccombe. Il Cammino sinodale sta cercando di alleggerire lo zaino: non si può pellegrinare tirandosi dietro delle carovane. Il Giubileo e il Sinodo potranno alimentare la nostra speranza, che non delude perché fondata sull’amore di Dio riversato nei nostri cuori (cf. Rom 5,5) e la nostra leggerezza, perché camminiamo con gioia e gratitudine nel sentiero del regno di Dio.
+ Erio Castellucci
Modena-Carpi, 21 settembre 2024