«Queste persone che non contano niente e non hanno nemmeno il diritto di dire la loro, vanno sempre più aumentando e pur così riusciamo a non vederle». C’è spazio per la dignità, i diritti, la solidarietà, l’amore, e soprattutto l’umanità nell’omelia che il cardinale Francesco Montenegro, pastore dell’arcidiocesi di Agrigento e presidente di Caritas italiana, ha fatto nella celebrazione eucaristica in Duomo, in occasione del Festival della Migrazione.
Nella Messa, concelebrata insieme all’arcivescovo di Modena– Nonantola don Erio Castelluci e al direttore di Fondazione Migrantes don Giovanni De Robertis, il cardinale siciliano ha portato la sua testimonianza di sacerdote in una terra di sbarchi, storie di uomini e di donne che si accontentano di poco ma non hanno nulla, vicende umane che interrogano ogni coscienza, ancor più alla luce del Vangelo: «Sono tanti quelli che non vedono i loro diritti rispettati. – ha spiegato il cardinal Montenegro – Alcune volte noi facciamo i furbetti e a quelli che soffrono diciamo: “Non preoccuparti, tanto poi c’è il paradiso”. Ma se il Signore ci ha dato la vita è perché anche in questa vita riuscissimo a stare un po’ meglio, a rendere questo mondo un paradiso.
Nella mia diocesi c’è Lampedusa, dove a un certo punto c’erano 10mila stranieri a fronte di 5500 abitanti. In una situazione del genere è normale avere il capogiro, ma poi quando senti le storie e vedi i volti, capisci che quella gente non fa una visita di piacere. Una signora in un barcone non ha potuto partorire perché non ha potuto aprire le gambe, altri sono rimasti ustionati per il contatto con la benzina durante il viaggio sul gommone. Ricordo che quando ci fu il naufragio a Lampedusa, molti di quelli che noi chiamiamo delinquenti avevano in bocca un crocifisso: a loro modo sono morti facendosi la comunione. Questi poveri il Signore li ama. Lui stesso si è presentato come povero. Tutta questa gente che tentiamo di eliminare in fondo la dobbiamo guardare: non sono soltanto pance da riempire, ma uomini che hanno bisogno di vedere riconosciuta la loro dignità».
Il cardinale fa poi riferimento alle letture della domenica e in particolare al Vangelo di Marco (Mc 12, 38–44), sottolineando che «il Signore ci insegna che l’amore non si misura in base a quello che ti do, ma a quello che mi tolgo. Allora forse la vedova del brano evangelico ci insegna a ritrovare il coraggio di dare senza misurare. L’amore è sempre in passivo. È vero che i potenti, i prepotenti e i ricchi fanno più effetto, ma se voglio cercare Gesù devo andare dall’altra parte. Ogni posto è sacro e degno di Dio, dice Gesù. Vengo in chiesa e lo trovo, ma Gesù è anche sul barcone. Alcune chiese sono diventate musei, le strade sono ancora i luoghi degli uomini e quindi i luoghi di Dio. Questa pagina di Vangelo sembra il racconto di un fatto bello, invece è una provocazione del Signore alle nostre speranze e ai nostri progetti. Davanti al mondo d’oggi un criterio che dobbiamo rimettere in campo è quello della solidarietà. Oggi abbiamo paura gli uni degli altri, stiamo diventando anonimi. Il Signore va oltre la solidarietà e parla di amore. La solidarietà è rispondere ai bisogni, l’amore guarda l’uomo».
Il cardinale ha poi raccontato un significativo incontro con un senzatetto quando era ancora parroco: «“Io quando vedo un cane lo invidio, perché un cane ha qualcuno che si prende di lui, io no. Io valgo meno di un cane” mi disse quell’uomo mentre gli offrivo prima dei pacchi di pasta poi dei soldi. Può un uomo voler essere un cane?».
E infine l’eredità di Gesù, manipolata ad arte secondo il pastore di Agrigento: «Il giorno in cui fece testamento, Gesù ci lasciò due doni: l’eucarestia e i poveri. Noi abbiamo tagliato il foglio in due, abbiamo lasciato sul tavolo quello dell’eucarestia e abbiamo messo in un cassetto quello dei poveri. Così può capitare che vengo in chiesa per incontrare Lui, ma Lui è fuori con la mano tesa e io non lo riconosco.
Dobbiamo permettere al Signore di graffiarci attraverso le pagine del Vangelo, perché l’amore non è soltanto carezze, ma anche forza e coraggio. Abbiamo la fortuna di avere un Dio per il quale una pecora è uguale a 99, un Dio che paga gli operai della prima ora quanto quelli dell’ultima. Se abbiamo un Dio così imprevedibile, vale la pena avere a che fare con Lui, anche se non ci indica le strade larghe, ma i sentieri, dove possiamo incontrare i poveri. E quando il povero si sentirà guardato, quando riceverà il mio sorriso e la mia carezza, – conclude Montenegro – forse continuerà ad avere fame, ma potrà dire finalmente: “Per qualcuno sono un uomo”».