A Formigine, il centro pastorale San Francesco ha ospitato, in occasione del 25° della onlus San Gaetano, un incontro con Franco Garelli, ordinario di Sociologia all’Università di Torino, moderato dal vicario generale don Giuliano Gazzetti e incentrato sull’indagine sociologica “Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?”. L’inchiesta condotta dal professor Garelli, che unisce una ricerca quantitantiva su un campione nazionale di 1450 giovani tra i 18 e i 29 anni e una qualitativa, con 144 interviste approfondite a studenti universitari di Roma e Torino, offre uno spaccato rappresentativo del rapporto fra i giovani e la fede.
Professor Garelli, cosa emerge dall’indagine?
Innanzitutto, emerge con maggiore enfasi la crescita dell’ateismo tra i giovani: per la prima volta apprendiamo che negli ultimi decenni è raddoppiato e ha raggiunto il 28%. Una parte di questi giovani vive un ateismo «di moda», ma non pochi sono atei sulla base di argomentazioni articolate. Spesso è un ateismo più anticlericale che antireligioso. Inoltre, è evidente come il fenomeno dell’ateismo sia molto più forte rispetto a quello della ricerca di filosofie o religioni alternative, che è sovra– rappresentato dai media. Mi sono poi stupito nel rilevare che un buon numero di giovani accetta il cattolicesimo come parte della nostra cultura, per l’educazione ricevuta. Rivalutano la religione più per motivi etnico–culturali che spirituali. Dunque si allineano alle scelte dei padri, in contrasto con la rappresentazione classica dei giovani quali «paladini dell’autenticità».
La pastorale giovanile in Italia è attrezzata per operare in questo contesto?
É attrezzata nelle figure e nei gruppi più qualificati che stanno «in frontiera» e sono permeabili alla condizione giovanile. I giovani non sono senza domande di senso, ma bisogna ascoltarli ed essere attenti all’elemento soggettivo, prima di giudicare. Altre realtà sono un po’ asettiche e sembrano perpetuare modelli di socializzazione del passato.
Ieri e oggi: cosa è cambiato?
Oggi, la fede è una scelta: il 70% dei giovani non credenti ritiene sia possibile oggi credere, anche se la cosa non li riguarda, purché sia un’opzione vissuta seriamente; in parallelo, oltre i 2/3 dei giovani credenti (anche quelli convinti e attivi) pensano che quanti non credono possano avere delle buone ragioni per farlo. C’è maggiore rispetto per le diverse posizioni e convinzioni.
Un tempo si viveva in una società dove vigeva l’antinomia fra «cattolici» e «anticlericali»; oggi i giovani vivono in una società della complessità e del pluralismo, dove le opzioni sono sfumate e la presenza di altre religioni e altre culture rende meno scontata l’affermazione di criteri di verità.
Parlo di pluralismo, non di relativismo, perchè non si nega la ricerca di senso. Occorre però dare una risposta credibile ai giovani, che li interpelli personalmente.
I giovani sono ancora aperti alla dimensione comunitaria della Chiesa?
La propensione a vivere insieme rimane fortissima nei giovani. Lo si vede in generale anche al di fuori degli ambiti ecclesiali. In parallelo, cresce la richiesta di essere interpellati singolarmente. I giovani di oggi non vivono più le loro scelte in modo ideologico: devono trovare qualcosa che sia esperienzialmente vero nella loro vita. La dimensione comunitaria deve essere alimentata dalla capacità di rivolgersi anche alla singola persona.
Il pontificato di papa Francesco «parla» ai giovani?
I giovani accolgono generalmente bene la figura e il messaggio di papa Francesco. Però mettono anche «i puntini sulle ‘i’»: non si limitano a recepire. Per alcuni, ad esempio, il pontificato appare troppo sbilanciato sul piano della giustizia sociale, rispetto a quello della ricerca di senso. D’altronde, il cattolicesimo dei giovani di oggi ha una dimensione più personale e meno politica e sociale, rispetto a quello delle generazioni precedenti.