Omelia di S. Em.za il Card. Marcello Semeraro in occasione della celebrazione di beatificazione del Servo di Dio don Luigi Lenzini
Piazza Grande, Modena
28 maggio 2022
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita» (Gv 10,11). Sono le prime parole che abbiamo udito dalla proclamazione del Santo Vangelo. Gesù parla di sé e dei pastori della Chiesa, commentava sant’Anselmo d’Aosta e aggiunge: unusquisque nostrum debet esse pastor, non qualiscunque, sed bonus, «ciascuno di noi deve essere pastore; non, però, un qualsiasi pastore, ma un buon pastore»! (Homil. XV: PL 158, 671). Su cosa, allora, mettere l’accento? Sulla figura del «pastore», o sulla qualifica di «buono»? Di pastori, infatti, anche nella Bibbia ce ne sono tanti, ma di alcuni fra loro il profeta Ezechiele dice che invece di pascolare il gregge, pascolano se stessi e che invece di mettersi al servizio delle pecore, pongono le pecore al proprio servizio (cf. Ez 34,1-31). Non basta, allora, essere pastori, per essere apprezzabili, meritevoli di attenzione e di lode. Qual è, dunque, la discriminante che Gesù intende sottolineare per individuare il pastore «vero» (ho kalos, dice il testo greco del vangelo)? Quale sarà il suo segno distintivo? Quale per noi il criterio per discernere?
Gesù lo dice: la sua disponibilità a dare la propria vita per quella delle pecore. Per dare una risposta san Bonaventura fece ricorso ad una immagine; scelse, anzi, un vero gioco di parole: il pastor è pastus, ossia che il «pastore» è buono quando diventa egli stesso «pasto», ossia nutrimento spirituale per le sue pecore. Questa – scrive sempre san Bonaventura – è una figura che «deve imprimersi nei cuori dei pastori della Chiesa come la forma del sigillo che si imprime nella cera, perché a loro volta possano inciderlo, con la parola e con l’esempio, nel cuore dei fedeli» (Serm. Dominic. 23, 3: ed. Città Nuova, Roma 1992, 287). Questa è una verità che noi possiamo avere sempre a mente quando ci accostiamo all’altare per nutrirci di Gesù eucaristia: pastor et pastus.
È una prospettiva utile a noi anche per riflettere sulla figura del nuovo beato, il sacerdote Luigi Lenzini. Come pastore egli istruì il popolo cristiano curando il catechismo dei bambini e l’insegnamento della religione nella scuola elementare, predicando ad ogni Messa con una parola semplice e convincente. Come pastore il beato Luigi Lenzini nutrì i fedeli con la celebrazione della Santa Messa e portando il viatico agli infermi; egli, a sua volta, si nutriva con l’adorazione prolungata dell’Eucaristia. Come pastore il nostro Beato fu sollecito verso i poveri, mostrandosi sempre pronto nelle opere di carità, nell’aiuto a chi era nel bisogno e nel conforto per chi era nell’afflizione.
«Il mercenario vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge…». Riflettendo su quest’altra frase del vangelo, San Gregorio magno ci offre un valido criterio di discernimento per valutare l’autenticità e il valore di un pastore: «In tempi tranquilli tengono in genere la custodia del gregge sia il pastore autentico sia il mercenario. Sono i tempi difficili che ci svelano l’animo di chi esercita il compito del pastore» (Homil. in Evang. I, XIV, 2: PL 76, 1128).
Se lo consideriamo prescindendo da questo criterio, don Luigi Lenzini sarebbe solo un buon prete; anche discutibile per alcuni aspetti del suo carattere e tuttavia «molto severo e tanto buono», come disse di lui un testimone. Furono, però, i «tempi difficili», di cui parlava san Gregorio magno, a svelare che don Luigi Lenzini era pastore autentico e non mercenario; furono i «tempi difficili» a svelare che quella normalità era eccezionalità.
Il valore eccezionale della «ordinarietà» nella vita cristiana l’hanno sottolineata tutti gli ultimi Papi: da san Giovanni Paolo II, il quale nell’esortazione Novo millennio ineunte (2001) scrisse che era giunta l’ora di riproporre a tutti con convinzione la «misura alta» della vita cristiana ordinaria (cf. n. 31), a Benedetto XVI che disse: «La santità non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti» (Catechesi 13 aprile 2011); a Francesco, che ancora nell’Omelia per le canonizzazioni di domenica 15 maggio scorso ha raccomandato di non separare la santità dalla vita di tutti i giorni, ma piuttosto di cercarla e abbracciarla nella quotidianità.
Lo hanno detto anche i santi. Vi riferisco, in proposito, un simpatico testo di san J. H. Newman dove egli compendia la sua via breve alla perfezione: «Se voi mi domandate cosa dovete fare per essere perfetti io vi risponderò: non rimanete a letto dopo l’ora fissata per la levata; rivolgete i vostri primi pensieri a Dio; fate una breve visita a Gesù in sacramento; recitate devotamente l’Angelus; mangiate e bevete per la gloria di Dio; recitate bene la vostra corona del rosario; siate raccolti; cacciate i cattivi pensieri; fate con devozione la vostra meditazione della sera; esaminate ogni giorno la vostra coscienza; giunta l’ora coricatevi e sarete già perfetti» (Meditations and Devotions II: «A Short Road to Perfection»).
Ho fatto questa citazione perché mi è parso di trovarvi qualcosa della vita e del ministero del nostro Beato. Egli fu rigoroso nella propria vita di sacerdote e nella sua missione di parroco, ma fu anche un po’ simpatico ad esempio nel suo gusto di giocare a briscola e di condividere all’osteria un bicchiere di buon vino … anche se questo gli procurò qualche fastidio col suo vescovo. Fu, però, questa vita «normale» a renderlo «pronto» quando la tristezza del momento e la crudeltà umana fecero scempio del suo corpo. La Chiesa oggi lo dichiara «martire» perché riconosce che la sua esecrabile uccisione fu decisa ed eseguita in odium fidei, per eliminare un sacerdote cattolico.
Valgono, in conclusione, le parole del vostro Arcivescovo il quale, celebrando la Messa il 21 luglio dello scorso anno nella chiesa di Crocette per inaugurare il tempo di preparazione a questa beatificazione, nell’Omelia disse che la vita di don Luigi Lenzini è stata «un ministero sacerdotale “normale” cioè dedito, quotidiano, attento alle persone. Questa vita che lui ha speso generando tanti cristiani e accompagnandoli nei momenti fondamentali della loro esistenza, qui durante il periodo della terribile seconda guerra mondiale, questa vita che lui ha “dato” quando è stato aggredito e ucciso, questa vita oggi vince».