Pubblichiamo il testo integrale del saluto iniziale e dell’omelia pronunciati domenica scorsa, 14 giungo 2020, dall’Arcivescovo Erio Castellucci durante la celebrazione della Solennità del Corpus Domini, in suffragio delle vittime del Coronavirus, in Piazza Grande a Modena e a seguire una selezione di foto dell’evento a cura di Alessandro Fiocchi.
Saluto iniziale
Saluto e ringrazio tutti voi che partecipate a questa liturgia nella Solennità del Corpus Domini, sia voi presenti di persona, sia coloro che sono collegati attraverso la televisione. Il 27 marzo scorso, nel pieno della pandemia, durante la visita al Cimitero di San Cataldo assieme al Sindaco di Modena, è nata l’idea di proporre appena possibile, una liturgia pubblica in suffragio di tutti quei defunti per i quali non si sono potuti celebrare i riti esequiali. Ringrazio il dott. Gian Carlo Muzzarelli per la convinta collaborazione e per la disponibilità di Piazza Grande, luogo simbolico della vita cittadina. Ringrazio le altre autorità presenti, a partire dal nostro Prefetto dott. Pierluigi Faloni, dal presidente della Regione dott. Stefano Bonaccini, dai vescovi Pizzi e Morandi, poi i presbiteri, i diaconi, i ministri della liturgia e i sacrestani, i volontari che hanno allestito la piazza; ringrazio i medici del Policlinico che si sono spesi in prima linea e dei quali questa sera è presente una rappresentanza accompagnata dal Magnifico Rettore dell’Università di Modena e Reggio. Ringrazio infine in particolare i familiari e i parenti dei defunti per i quali oggi preghiamo. E li ricordiamo assieme a tutti coloro che hanno potuto in qualche modo accompagnarli nei loro ultimi passi terreni: medici, infermieri, assistenti sanitari, cappellani degli ospedali, parroci e operatori delle agenzie funebri. È un immenso dolore, che affidiamo al Signore della vita e della morte, l’unico capace di una parola che vada oltre il confine di questa esistenza terrena.
– Deut 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1 Cor 10,16-17; Gv 6,51-58 –
“Non dimenticare il Signore tuo Dio… che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso”. È l’invito rivolto da Mosè al popolo ebraico nel cammino dall’Egitto alla Terra dei padri. Il grande profeta dice: “non dimenticare”, perché sa che gli esseri umani sono facili alle amnesie; nei pericoli, nelle sofferenze, nel “deserto grande e spaventoso”, come lo definisce Mosè, è spontaneo ricordarsi di Dio, farsi attenti alle necessità degli altri, concentrarsi sulle cose vitali e tralasciare le banalità. Ma passata l’emergenza, attraversato il deserto, vedendo ormai all’orizzonte la Terra promessa, subentra la dimenticanza o addirittura la rimozione.
Noi abbiamo attraversato un grande deserto in questi mesi e non ne siamo ancora usciti; se l’emergenza sanitaria in quasi tutte le zone del paese sembra ormai contenuta – mentre in altre nazioni è ancora viva – è appena iniziata l’emergenza economica, intrecciata con l’emergenza sociale. Un deserto, dunque, ancora vasto e insidioso; del resto, quando Mosè pronuncia questi ammonimenti, il popolo è ancora in cammino, nel territorio dell’attuale Giordania; è uscito dalla schiavitù dell’Egitto, ma dovrà ancora combattere parecchio per arrivare alla Terra promessa. Noi, come gli israeliti, siamo in questo guado, tra la sensazione di avere scampato il pericolo più grande e la consapevolezza di avere di fronte altre lotte, da sostenere insieme con prudenza e determinazione. Siamo nella situazione di chi corre il rischio di rilassarsi, cantare vittoria troppo presto e dimenticare il Signore e i buoni propositi maturati durante il cammino nel deserto.
In realtà oggi vogliamo ricordare, cioè letteralmente “rimettere dentro il cuore” gli avvenimenti vissuti in questi mesi. Molti dei presenti a questa celebrazione – parenti e amici di persone morte con o per coronavirus, o per altre malattie, nei due mesi delle restrizioni più rigorose – hanno vissuto un dolore talmente profondo da non poterlo certo dimenticare; il rischio, semmai, è che non si riesca a “rimetterlo dentro il cuore”, a rielaborarlo, perché è un masso che rimane sulla soglia del cuore. È come se si fossero concentrate tre sofferenze in una sola esperienza; la morte di una persona amata, già da sola un dolore bruciante; l’impossibilità di esserle stati vicini nel momento del trapasso, un lutto nel lutto; e l’accompagnamento mancato attraverso la celebrazione delle esequie e dei riti del commiato. Le immagini dei funerali solitari, dove la cassa è affiancata dai soli operatori delle agenzie funebri, sono stampate nei nostri occhi come uno dei simboli più drammatici della pandemia.
Noi chiediamo al Signore oggi di “ricordare” anche questa esperienza; il Signore per primo la “ricorda”, la mette nel suo cuore, perché lui è stato comunque vicino ai morenti; soprattutto in quel momento supremo si è avverato il Salmo che dice: “preziosa agli occhi del Signore è la morte dei giusti” (116,15 ebr.); preziosa, perché è una vita che lui prende tra le sue braccia, solleva dal deserto dell’esistenza terrena e porta in salvo nella Terra promessa definitiva. Siamo qui per “ricordare”, rimettere dentro il nostro cuore, che Dio per primo non dimentica le sue creature; è lui che ha raccolto il loro ultimo respiro, ha compensato con il suo affetto l’assenza fisica dei loro cari.
Assenza fisica che ha pesato; perché il corpo non è solo il simbolo del limite umano, il segno del tempo che passa o l’espressione del vigore, quando è in salute, e della debolezza quando è malato. Il corpo è prima di tutto il luogo delle relazioni; per la Bibbia il corpo e l’anima non sono due grandezze in contrasto, ma sono dimensioni dell’unico essere umano. La fede cristiana ha proprio un corpo al centro: il Verbo che si fa carne (cf. Gv 1,14), il Figlio di Dio che si fa uomo. Quello di Gesù non era un corpo finto o prodigioso: anche lui ha avuto bisogno di mangiare, bere e dormire; ha provato la fatica e ha sentito il peso del caldo e la morsa del freddo. Il corpo di Gesù è il diario del suo amore per noi; lui non ha scritto “ti voglio bene” sulla carta, lo ha scritto sulla carne. Prendere carne, assumere i i condizionamenti dell’umano, vivere il corpo come dono al Padre e ai fratelli: questo è il diario vissuto dell’amore di Gesù. Ed è il motivo per cui non ha voluto lasciarci solo un testamento verbale, ma anche una presenza corporea, come risulta dal Vangelo: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui”. L’eucaristia è il segno più concreto, più corporeo immaginabile, che poteva consegnarci il Signore; è il memoriale del suo sacrificio, del dono di sé culminato sulla croce; ci “ricorda”, cioè ci “rimette nel cuore”, a quale punto di esagerazione è arrivato l’amore di Dio per noi.
Celebrare, mangiare e adorare l’eucaristia sarebbe però contraddittorio se non producesse quello che significa: assumere nella nostra carne la carne di Gesù, il suo stile di dono, la sua vita che si offre. Per questo, dice Paolo nella seconda lettura, “noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane”. Chi partecipa alla Messa e chi fa la comunione, cioè, non lo fa semplicemente per se stesso, per alimentare la propria anima, ma lo fa per diventare a sua volta corpo, per inserirsi più profondamente in quel noi che è la Chiesa. Partecipare alla Messa, fare la comunione e l’adorazione, non sono gesti intimisti, che si risolvano nel rito; sono gesti estremisti nel vero senso della parola: spingono cioè a dare completamente la vita; il corpo di Gesù è puro dono, e chi lo fa proprio si nutre di un dono, di un’energia scomoda, di una forza per servire il prossimo, specialmente se povero e fragile. Sarebbe un vero controsenso partecipare alla Messa, fare la comunione e adorare l’eucaristia, e poi creare divisioni nel corpo ecclesiale e sociale, spargere calunnie e maldicenze, offendere gli altri e perdersi nelle banalità.
In questi mesi abbiamo sperimentato un’inedita separazione, nel corpo di Gesù, tra la sua carne eucaristica e la sua carne ecclesiale: tra l’ostia consacrata e la santa assemblea, tra il corpo sacramentale e il corpo vivente dei cristiani; il lungo digiuno eucaristico ci ha forse aiutati a riscoprire la bellezza di questo dono; ma spero che ci abbia aiutati soprattutto a ricordare che l’eucaristia ha come fine la carità, la ricerca della comunione tra i fratelli, l’impegno nella costruzione del bene comune.
Abbiamo attraversato in questi mesi il deserto del distanziamento corporeo, che si riflette – e non può essere altrimenti – anche nelle nostre liturgie, e ci impedisce di stare vicini, darci il segno della pace, formare un coro unito: d’altra parte, è giusto che la vita entri nel rito, e da questo punto di vista le nostre celebrazioni ci ricordano il momento di prudente attesa che stiamo vivendo. Ora portiamo però il rito nella vita: pur dovendo rimanere distanziati nel corpo, chiediamo al Signore di avvicinarci nel cuore. E se per ora la distanza corporea ci separa soprattutto dai nostri cari defunti, nel Signore possiamo far loro sentire l’affetto e raggiungerli con la preghiera. In questa celebrazione di suffragio chiediamo al Signore, risorto nel corpo, che li accolga nel suo regno e doni loro vita e risurrezione.
+ Erio Castellucci