Dopo la preghiera con l’arte, tre testimonianze modenesi sulle opere di misericordia, due materiali ed una spirituale.
Paolo Vacondio ha parlato della misericordia per chi è morente, per l’ultima fase della vita, chiedendosi come questa realtà interroga la chiesa di Modena oggi, come i bisogni concreti delle famiglie sono percepiti e rilevati, se c’é un sistema per stare loro accanto. Cosa ha da dire la Chiesa in una realtà in cui la morte non deve esistere, é assolutamente intollerabile?
La lettera di una donna malata di SLA sulle sue scelte future invita a riflettere sulle due radici dell’insostenibilità dell’idea della morte: la prima è di tipo psicologico, viene da come ci siamo formati e reggiamo attaccamento e distacco. L’altra é culturale: nella nostra società non si può parlare di morte, non si può riflettere su questo tema. Sarebbe un aiuto straordinario per chi vive la malattia se il clima intorno ai malati ed alle famiglie fosse pacato, sereno, accettato. Non costringerebbe a silenzi dolorosi. Occorre un salto spirituale, dobbiamo stringere una relazione con la morte, aiutare le persone a sentire che anch’essa é un pezzo della vita, e farci sentire presenti a chi sta vivendo queste fasi. La sfida è essere comunità che sanno trasmettere questo.
Guido Federzoni ha testimoniato la sua esperienza in carcere.
Il carcere è oggi una discarica sociale, ma serve ancora così come è? Anticipa alcuni elementi della società, ma non rispetta il dettato costituzionale. Custodia e afflizione sono un paradigma non ancora non superato. E’ un luogo di espiazione e misericordia, un luogo dove sopravvive la violenza, anche tra detenuti, del rapporto complesso con gli agenti. E’ un grande luogo di infantilizzazione, dove non si é responsabili di nulla, di grande dolore, di persone private di tutto, e questa condizione alla lunga pesa.
La comunità cristiana cosa può fare? C’è già un grande impegno dei sacerdoti, è ancora vivo il ricordo di don Ivan, ma c’è la percezione di grande distanza da parte della comunità. Il carcere è comunque solo una parentesi, poi le persone escono. Cosa trovano fuori? Come vive senza lavoro chi esce? Torna a delinquere, è inevitabile. Quello che accade fuori è un tema importantissimo: spesso ci sono solo tante porte chiuse e drammi.
Vittorio Ferrari ha testimoniato il servizio nel mondo del lavoro delle Piccole Sorelle di Gesù lavoratore.
La loro vita è dono di sé nella concretezza dei fatti, con il cuore pieno dell’amore di Cristo, un impegno missionario con cui prendono l’iniziativa per prime, avvicinano tutti, sanno entrare in famiglia. Vedo carisma di una vita donata a Dio e vissuta in comunità, senza un territorio preciso di pertinenza, un esempio per il nostro vivere con valori umani ed evangelici nella vita concreta.
Sacerdoti e seminaristi nel mondo del lavoro sono sempre più rari, ma la crisi ha aumentato la fragilità, allontanando l’idea di lavoro per il bene comune, l’ etica dello sviluppo economico. Abbiamo bisogno di educarci alla vita come nel Vangelo, di amicizia e solidarietà concreta. E in un contesto professionale, la figura del sacerdote può essere più accettata, è diverso dal collega. Sul lavoro poi abbiamo abitudini a cui non vogliamo rinunciare. ma siamo invitati a una vita non ordinaria, a gettare le reti non solo dove la pesca è sicura. Il Signore ci chiede di immergerci in chi ha bisogno di salvezza.