Forse mai nella storia si erano dati appuntamento tanti significati in un solo luogo. E non era un luogo solenne, di quelli che ospitano eventi epocali: non era una reggia imperiale e neppure un palazzo nobile; non era un tempio maestoso e nemmeno una villa principesca. Tutt’altro: era una stalla. Uno spazio abitato dagli animali, poco adatto come culla dell’uomo. E ancora meno come culla del Figlio di Dio. Eppure proprio lì, su una mangiatoia, viene alla luce Gesù.
La stalla di Betlemme, luogo trascurabile di un villaggio secondario di un paese periferico, diventa il centro del mondo. Diventa l’incrocio dei destini umani e dei più grandi valori che li custodiscono: l’accoglienza della vita nascente e l’ospitalità dei poveri.
Gesù che nasce nella stalla è prima di tutto un bimbo concepito che viene accolto dai genitori, un piccolo corpo accudito e sfamato, abbracciato e accarezzato. Rappresenta, questo neonato, tutti i bimbi accolti nel mondo, ma anche tutti i bimbi che dal grembo materno non vedranno la luce, non saranno accolti. Una ferita profonda per la civiltà, non riuscire ad ospitare la vita nascente, la vita fragile di un piccolo essere umano.
Gesù che nasce nella stalla è poi un bimbo rifiutato dai ricchi, che badavano al profitto e respinsero Giuseppe e Maria, gente del popolo: “non c’era posto per loro nella locanda”. Non potevano pagare ed erano oltretutto forestieri; avevano tutta l’aria di essere nomadi o, chissà, forse sfollati. Meglio non rischiare: nessuna casa per quella madre gravida, nessun riparo per quei giovani girovaghi. Un’altra ferita profonda per la civiltà, il rifiuto della vita indigente, del forestiero e del povero.
La vita è vita: punto. Che sia nel grembo o sul barcone, trae la sua dignità dal fatto che esiste, che c’è, e non dal corrispondere ai criteri esterni imposti da una società
La stalla di Betlemme diventa la casa della vita nascente e della vita indigente. L’accoglienza di una vita spuntata dal grembo e di una vita uscita dal barcone sono gli indicatori del grado di civiltà di un popolo. Non l’uno o l’altro, ma l’uno e l’altro. Betlemme unisce ciò che spesso gli uomini dividono, e i cristiani stessi separano, schierandosi tra due file contrapposte: quelli che difendono la vita del grembo e quelli che difendono la vita del barcone. Come se fossero due vite dotate di diversa dignità, come se le fragilità fossero di serie A e di serie B. La vita è vita: punto. Che sia nel grembo o sul barcone, trae la sua dignità dal fatto che esiste, che c’è, e non dal corrispondere ai criteri esterni imposti da una società: criteri che ricordano a volte i calcoli di convenienza di quegli albergatori palestinesi. Sono inaccettabili per la coscienza perfino le leggi e le norme dello Stato, quando permettono e programmano lo scarto della vita nel grembo o nel barcone, quando legalizzano sommariamente i respingimenti di chi chiede di vivere, venendo alla luce o sbarcando sulla terraferma.
Là dove un aggettivo qualsiasi è più importante del sostantivo “essere umano”, mai nessun diritto universale può essere riconosciuto. Se “concepito” o “nato”, se “malato” o “sano”, se “ricco” o “povero”, se “cittadino” o “straniero”, se “uomo” o “donna”, se “giovane” o “vecchio”… se questi aggettivi sono più importanti del semplice sostantivo “essere umano”, abbiamo perso per strada un pezzo fondamentale della nostra civiltà. Concentrandosi nella Notte di Natale su quella stalla, la Chiesa riaccende una semplice e grande verità: la vita va accolta. Alla porta della locanda del cuore umano non si può appendere il cartello: “chiuso per indifferenza”.