Dalla partenza da Sami Pachonki, la città del Gambia dove è nato, all’ottenimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sono passati sette anni. Per Ousmara Camara, trentenne gambiano che oggi vive nella parrocchia di San Lazzaro, sono stati sette anni ricchi di imprevisti, inciampi burocratici, permessi negati e ricorsi in tribunale. Un lungo viaggio per arrivare in Italia e un percorso ancora più tortuoso per vedere riconosciuto il diritto a restare. Il lieto fine è arrivato e molto del merito è da attribuire alla sua tenacia, alla ferma volontà di dare un futuro a sé e alla sua famiglia che ancora oggi si trova in Gambia, alla moglie Aminata e al figlio Fodej di 7 anni, che Camara non ha mai abbracciato e ha potuto vedere solo su Skype: «Li sento tutti i giorni, – racconta – pensarli lontani non è facile, ma attualmente non ci sono le condizioni per farli arrivare e mantenerli in Italia». Il viaggio di Camara comincia nel 2011,quando per motivi politici (faceva parte dell’ UDP – United Democratic Party, in opposizione alla dittatura di Yahya Jammeh) è costretto a lasciare il paese africano. In due anni attraversa Senegal, Mali, Niger e Libia prima di approdare nel 2013 in Sicilia in cerca di protezione internazionale. Dall’isola si trasferisce, per errore, a Pescara, poi arriva a Modena, dove in attesa di un appuntamento per dare le proprie impronte digitali dorme nei parchi o dove gli capita, prima di rivolgersi a Porta Aperta. Il tribunale di Bologna rigetta la sua prima richiesta di asilo e Camara non può partecipare al progetto Sprar. Lui non si arrende, si trasferisce a Catanzaro per raccogliere la frutta per 25 euro al giorno (con vitto e trasporto a suo carico) e dopo sei mesi torna a Modena per rinnovare i documenti.
Camara chiede di nuovo aiuto a Porta Aperta e nel frattempo conosce la realtà della Caritas, che gli chiede di portare la sua testimonianza davanti ai giovani. È proprio durante uno di questi incontri, nella parrocchia di San Faustino, che conosce tre ragazzi del Centro missionario, Matteo, Andrea e Paolo, che gli propongono di condividere un appartamento in via Bellinzona. Nel frattempo cambia avvocato e fa ricorso, inoltrando poi una nuova richiesta di asilo, ma la risposta è ancora negativa: «La motivazione – spiega il giovane gambiano – è stata che non avevano trovato la mia abitazione. Non avevamo messo nel campanello il mio nome, anche se la Questura aveva tutti i miei contatti, la mail e il numero di cellulare». Al terzo tentativo Camara non si è presentato a Bologna soltanto in compagnia del suo avvocato, ma con una squadra intera di amici italiani che hanno testimoniato la sua piena integrazione. Cinque mesi dopo è arrivata la notizia tanto attesa: il giudice aveva concesso a Camara il permesso di soggiorno per motivi umanitari per due anni, rinnovabile per altri due. «Tanti miei connazionali dopo il primo rifiuto non vanno avanti, invece serve pazienza. Nei cinque anni in cui ho fatto richiesta di soggiorno per motivi umanitari, dovevo rinnovare ogni sei mesi quello temporaneo ed è anche capitato che mi arrivasse già scaduto. In quei momenti provi tanta fatica e anche rabbia, ma non ho mai pensato di lasciar stare e sono sempre stato convinto che prima o poi il mio momento sarebbe arrivato». Camara ora vive in via Borri, nei locali della parrocchia di San Lazzaro, assieme a Matteo e altri due inquilini, Giovanni e Jamshid, e lavora in un prosciuttificio di Castelnuovo: «Non sono mai stato offeso per il colore della mia pelle o per la religione. – spiega – L’integrazione è più facile se hai un gruppo di amici che ti aiutano a conoscere il contesto in cui sei inserito, soprattutto se è molto diverso da quello da dove provieni. Con l’aiuto di Matteo e degli altri ragazzi del Centro missionario sono riuscito ad entrare in una mentalità che è molto distante da quella del mio paese, pur rimanendo legato alla comunità gambiana e alle mie radici».