“Costui è il re dei Giudei”. L’ironia è evidente: la scritta sulla testa di Gesù smentisce le sue pretese regali. Infatti sia i capi sia i soldati ne prendono spunto per deriderlo: se sei davvero il “re dei Giudei”, salvati da solo. Un tempo il re non rivestiva solo funzioni amministrative e di governo, ma anche compiti sacerdotali e persino medici. La tradizione dei re taumaturghi, che guarivano dalle malattie e proteggevano dalle sventure, è durata in Francia e in Inghilterra fino a tre secoli fa. Ai sovrani competeva la protezione a tutto campo dei sudditi. Ma questo presunto re che è finito in croce non riesce neppure a proteggere se stesso. Tra gli ebrei del tempo di Gesù era stata idealizzata la figura del re Davide, di cui parla la prima lettura, vissuto dieci secoli prima, che era considerato il sovrano ideale, perché aveva riunificato le diverse tribù e posto Gerusalemme come capitale. Il Messa, sulle orme del re Davide, avrebbe dovuto riportare l’unità nel popolo – unità anche politica – attraverso la cacciata degli invasori, che all’epoca di Gesù erano i romani. Per questo non solo i capi giudei ma anche i soldati romani lo prendono in giro. I giudei, perché è ridicolo ai loro occhi un Messia che, invece di prendere le armi, come Davide, finisce inerme, vinto e svergognato sulla croce. I romani, perché quel crocifisso, al quale molti ebrei avevano appeso le loro speranze di liberazione, era il segno della vittoria dell’impero su quel popolo sottomesso. La derisione, qui, è l’atteggiamento dei potenti verso gli impotenti, dei vincitori verso i vinti, dei crocifissori verso i crocifissi.
Il Vangelo di Luca rileva però anche un altro atteggiamento verso il crocifisso: un atteggiamento silenzioso, che fa da cornice a tutta la scena: “il popolo stava a vedere”. La traduzione letterale, anche se meno elegante, rende ancora meglio: “il popolo stava fermo guardando”. Mentre i capi e i soldati creano movimento, il popolo è statico, ha sospeso il giudizio, vuole vedere cosa capita e si limita a fare da spettatore. Il secondo atteggiamento possibile di fronte alla croce è l’attesa; davanti alla sofferenza e alla violenza c’è infatti chi trattiene il respiro, chi si blocca. Non è un atteggiamento colpevole, come la derisione, ma rischia comunque l’indifferenza se non si traduce nella condivisione e nell’azione. Quel popolo che “stava fermo guardando” è il popolo che potrebbe intervenire – se non altro per ricambiare a Gesù alcuni dei benefici ricevuti da lui – ma ha timore delle autorità religiose e militari e prima di agire vuole rendersi conto del lato verso cui penderà la bilancia.
Uno dei due malfattori appesi alla croce assume un terzo atteggiamento: l’insulto; anche in questo caso la traduzione letterale rende meglio: egli usa la “blasfemia”, cioè arriva alla bestemmia, offende apertamente Gesù. Lo sfida da pari a pari, perché – diversamente dal popolo e dai capi – lui è sulla croce, condivide la stessa sorte di Gesù e quindi si permette di passare dall’ironia all’insulto. È l’atteggiamento di chi, quando si trova nella sofferenza, si ribella contro Dio e lo offende, gli chiede conto della situazione e gli domanda salvezza – “salva te stesso e noi!” – incolpandolo della propria condizione penosa. A volte nel nostro ministero pastorale abbiamo incontrato persone che, trovandosi in croce, hanno incolpato in Signore, persino bestemmiandolo. È un atteggiamento umanissimo, in alcuni casi è una “preghiera rovesciata”, un’implorazione rivestita di rabbia, un grido di salvezza annegato nella disperazione. D’altra parte uno, di fronte alla croce, può rimanere in attesa come il popolo o lanciarsi nella derisione come i capi; ma quando tocca a lui salire sulla croce, allora l’indifferenza e l’ironia non tengono più.
L’insulto però non è l’unico atteggiamento possibile sulla croce. L’altro malfattore, anche lui da pari a pari, scegli la strada della supplica. Lui ha capito che Gesù – a differenza di loro due – è innocente; non solo: ha capito che Gesù è finito lì perché ha voluto percorrere senza ripensamenti la via del dono di sé, ha voluto condividere fino in fondo. Ha capito, il buon ladrone, che la risposta vera e piena alla sofferenza e all’ingiustizia è la condivisione. E chiede semplicemente che Gesù, dopo avere condiviso la croce, condivida anche la gloria: gli chiede un posto nel Regno. La risposta di Gesù – “oggi come me sarai nel paradiso” – prospetta al malfattore umile non un luogo da sogno, ma una relazione piena con Gesù: il paradiso non è altro che la Pasqua eterna, l’eterna compagnia del Signore risorto, il cui corpo trasfigurato comprende la Chiesa del cielo; infatti, come dice la seconda lettura di oggi, la Chiesa è il “corpo” di cui Gesù è il Capo. In questa frase sintetica, “oggi con me sarai nel paradiso” – sintetica, perché chi si trova in croce non perde tempo a dire parole inutili – Gesù ci dà l’unica risposta possibile al mistero della croce: condividere quaggiù la sofferenza apre agli umili la porta all’eternità, che sarà condivisione piena e gioiosa con il Signore e con i fratelli.
A questo siete chiamati, carissimi seminaristi – Pietro, Davide, Sherin, Tesvin e Mattia – assumendo oggi il ministero del lettorato e dell’accolitato; semplicemente a questo: testimoniare la Pasqua del Signore, che inizia oggi e si compie nell’eternità. Grazie a voi, che avete accolto questo impegno; grazie al Seminario e ai suoi educatori, per cui preghiamo soprattutto in questa giornata diocesana del Seminario; grazie alle vostre famiglie e alle parrocchie di origine e di servizio. Come lettori e accoliti, testimoniate la Pasqua nella Parola, il cui perno è l’annuncio di Cristo morto e risorto; e testimoniatela nell’Eucaristia, energia pasquale per la Chiesa in cammino verso la Pasqua eterna.